E’ un binomio che sembrerebbe perfetto per spingere verso quella salvaguardia ambientale che è nella speranza e nella attesa di molti. Ma le cose non sono così semplici perché la scienza e la ricerca che la nutre non è fatta di semplificazioni ma di studi verificati e confrontabili. Molto si è discusso e si sta discutendo su quale correlazione ci può essere fra l’inquinamento da particolato (specialmente il PM2,5 ovvero le particelle sotto i 2,5 micron) e la diffusione di questo malefico virus che risponde al nome di Covid 19 e che visto in foto assomiglia a una mina marina colorata.
Riassumiamo i termini della questione, esistono due approcci e quindi due riposte ad oggi possibili. Il primo approccio è quello clinico sulla evoluzione della malattia una volta contratta. L’esposizione allo smog ha, come noto, effetti negativi sulla salute generale, rendendo più fragili e aumentando la prevalenza di patologie cardiovascolari, metaboliche e respiratorie, accrescendo così la quota di soggetti con un rischio più elevato di conseguenze peggiori in caso di contagio, quando l’organismo è più compromesso, i danni sono maggiori. E’ un dato di fatto che il particolato possa sostenere una risposta infiammatoria a livello polmonare, SARS-CoV2 sembra sostenere un meccanismo analogo, inducendo la rapida insorgenza di uno stato di infiammazione, con un incremento altrettanto rapido di citochine infiammatorie causa delle difficoltà respiratorie. Quindi una esposizione ad atmosfere inquinate nel medio e lungo periodo può essere un fattore aggravante di rischio come del resto lo è, come noto, il fumo di sigaretta che aumenta il rischio di infezioni acute delle basse vie respiratorie.
Quindi se questo approccio è largamente accettato e condiviso più controverso anzi ancora non dimostrato è il secondo approccio, quello che cerca un legame diretto infettivo fra particolato fine e contagio, perché, come afferma il prof. Caserini del Politecnico di Milano nel suo blog Climalteranti, “Due vaghi indizi non fanno una prova”.
Il primo indizio è stato portato dalla SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale) che propone in un position paper pubblicato sul loro sito web a metà marzo, l’esistenza di una relazione diretta tra “tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori”,sostenendo quindi che una elevata concentrazione di PM10 in atmosfera possa essere un “amplificatore” della diffusione del Coronavirus (e non – si badi bene – dei suoi effetti, ad esempio una maggiore mortalità). La prova sarebbe una “correlazione forte” che gli autori avrebbero trovato fra il numero dei superamenti del limite giornaliero delle concentrazioni di PM10 e il numero di contagiati. Il position paper della SIMA si spinge addirittura a ipotizzare che mentre nelle regioni meridionali italiane (meno inquinate) il modello prevalente di trasmissione virale avviene per contatto fra persone, nelle regioni del Nord Italia maggiormente inquinate a questa modalità si aggiungerebbe l’infezione attraverso il contatto con il “particolato infetto”. L’indizio è debole e deve trovare altre conferme che non sono arrivate, la evidenza dell’evolversi del contagio in altre parti del mondo ha evidenziato come la diffusione della malattia non sia correlata a zone ad alto inquinamento (se non per quanto detto sopra) ma fondamentalmente dai fattori umani di vicinanza, spostamenti da e per l’estero e luoghi di lavoro a stretto contatto e quindi di trasmissione via areosol emesso dalla respirazione dei soggetti ammalati o comunque positivi al virus.
Un secondo indizio è quello del Comunicato stampa del 24 aprile “Presenza di Coronavirus sul particolato atmosferico: possibile “indicatore” precoce di future recidive dell’epidemia da COVID-19”, che si basa, anche in questa circostanza, su un lavoro non pubblicato. Qui gli stessi autori del position paper annunciano di aver trovato tracce di RNA virale SARS-CoV-2 nel PM10 atmosferico prelevato in alcune zone di Bergamo e si spingono a ipotizzare l’uso di questa scoperta come importante ai fini delle misure di gestione della fase 2 dell’epidemia COVID-19. Al riguardo riporto quanto replicato dal prof. Caserini, “la presenza di tracce di virus nel particolato non è affatto una novità, visto che si studiano anche le tracce di virus di tanti millenni or sono presenti nelle carote di ghiaccio. Ma, ovviamente, non si tratta di virus attivi, in grado di essere infettivi. Sono, appunto frammenti, tracce che possono indicare la presenza di virus infettante, ma non la dimostrano, come spiegato in seguito. Quand’anche venisse confermata in altri studi la presenza di virus ancora attivi sul particolato, questo non comporterebbe la sua infettività. In prima battuta, perché dopo poche ore un virus, in assenza di un ospite da colonizzare e nelle cui cellule replicarsi, non può continuare ad esistere come entità biologica. In seconda battuta, per infettare non bastano uno o pochi virus ma deve esserci una definita carica virale sotto la quale non vi è infezione.”
La materia comunque è complessa e merita comunque attenzione, osserva Sergio Harari, direttore Unità Operativa Pneumologia, Ospedale San Giuseppe di Milano, “SarsCov2 viene trasmesso soprattutto tramite le goccioline respiratorie di una persona infetta; il contagio da superfici infette è più raro, mentre alcune indicazioni suggeriscono che il virus possa rimanere infettivo nell’aerosol di un ambiente chiuso. Invece, l’ipotesi che il particolato atmosferico possa ‘trasportare’ il virus e quindi contribuire a diffonderlo per via aerea non sembra plausibile: il particolato può veicolare particelle biologiche come batteri, spore, pollini e anche virus, ma appare improbabile che i Coronavirus possano mantenere intatte caratteristiche e proprietà infettive dopo una permanenza più o meno prolungata all’esterno perché temperatura, essiccamento e raggi UV danneggiano l’involucro del virus e quindi la sua capacità di infettare. Perciò un legame fra le fluttuazioni giornaliere del particolato e l’incidenza dei contagi non è ad oggi confermata né plausibile”.
Chiudo con le conclusioni del Prof. Caserini, “di motivi per ridurre le emissioni di particolato, o di gas climalteranti, ce ne sono già fin troppi; a prescindere dall’epidemia di COVID-19 dobbiamo ridurre l’inquinamento dell’aria e contrastare drasticamente il riscaldamento globale. Non occorrono teorie – non ancora dimostrate – che mostrino altri possibili pericoli legati al particolato, e che rischiano di contribuire solo alla confusione nella comunicazione di materie complesse, in un momento in cui sarebbe più utile che gli scienziati parlassero in modo chiaro, responsabile ed efficace. Una raccomandazione utile in questa epidemia è piuttosto quella di stare all’aria aperta, perché non fa male, e se si sta in ambienti chiusi occorre far circolare l’aria aprendo le finestre”.
Autore: Ing. Gianfranco Benzoni
Di seguito l’Articolo integrale del prof. Casarini et altri
ARTICOLO Inquinamento e Covid due vaghi indizi non fanno una prova