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La chiesa rupestre di San Vittore è una testimonianza, lasciataci dal passato, di un luogo di un culto sorto dove confluivano importanti vie di transito fra una sponda e l’altra del Brembo, il traghetto che lo attraversava e gli insediamenti che, anche in tempi successivi, sono sorti sulle due sponde.

I lavori che sono presentati in questo contributo, ne illustrano la storia ma, nello stesso tempo, sono propedeutici a successivi interventi manutentivi di tipo ingegneristico, tesi a salvare gli affreschi che il tempo e il microclima ambientale (legato all’elevato tasso di umidità relativa) tendono a deteriorare.

Il primo tema è stato affrontato dal professor Gian Pietro Brogiolo, in uno studio titolato “San Vittore di Brembate Sotto-Una chiesa rupestre della Valle Padana”, suddiviso in due capitoli: “L’insediamento rupestre di San Vittore” e “San Vittore nel contesto storico”.
IL prof. Brogiolo, già ordinario di Archeologia Medioevale a Padova e presidente della Società degli Archeologi Medioevisti Italiani, ha sviluppato gli aspetti teorico metodologiche e diretto progetti di Archeologia postclassica (su città, castelli, architetture, paesaggi e comunità rurali). Condirettore delle riviste “Archeologia Medioevale”, “Archeologia dell’Architettura”, “Post Classical Archaelogy”,e delle collane “Documenti di Archeologia”, “Progetti di Archeologia”, è autore di 455 articoli, 10 monografie e 60 volumi, molti sul territorio fra l’Adige e il Chiese.

Il secondo tema, quello legato al microclima ambientale, da cui si evince la necessità di una climatizzazione, è stato oggetto di una indagine del dottor Diego Marsetti, geologo, con i suoi collaboratori, gli ingegneri Stefania Ambrosini e Mirko Madaschi.
Il dott. Diego Marsetti, laureatosi nel 1992 in scienze geologiche, ha maturato le proprie esperienze lavorative sia in Italia che all’estero. Nell’aprile del 2017 è stato inserito nel gruppo degli autori che hanno studiato il sito archeologico denominato “The Hal Saflieni Hypogeum”, patrimonio UNESCO, in Malta. Della sua lunga attività professionale, rientrano, a titolo di esempio, i suoi studi Val Borlezza, in Cerete Sotto e nella Valle dell’Oglio. Quelli di Puno, in Perù, per il recupero ambientale del lago Titicaca e l’“Indagine geologica e mineraria a supporto tecnico dello stato di fatto delle miniere di oro, argento e rame e terre rare” nella Columbia Britannica, in Canada.
E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche nel campo della idrologia, corrosione biochimica, geologia–geotecnica ed ambiente e relatore in diversi convegni nazionali e internazionali.

Gen Guala

 

 

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Partecipando a un convegno su “Bellezza, territorio, ambiente” l’ingegner Benzoni ha preparato un intervento che prendendo spunto da varie fonti cerca di dare alcuni spunti per una visione nuova della pianificazione e progettazione territoriale che, partendo dal degrado e dal consumo di suolo, desse nuovi paradigmi di azione per una vera salvaguardia.

Purtroppo il danno, a cui ora si tenta di porre rimedio, è già stato fatto, ed è iniziato nel primo dopo-guerra. Una parte è dipeso dalla  necessaria migrazione di tanti lavoratori dell’agricoltura verso altre attività capaci di garantire ancora un reddito costante, allora ritenuto certo, Una parte dal desiderio, e dalle possibilità economiche che lo consentivano, di vivere in una casa che non avesse il cesso nell’orto, o una turca ed un lavandino in uno sgabuzzino, da condividere alla fine di una ringhiera su cui affacciavano più famiglie stipate in due locali. Ma la responsabilità maggiori cadono sulla politica – a tutti i livelli – che non ha saputo (per ignoranza) o voluto (per calcolo) incanalare in una direzione accettabile, almeno per gli aggregati urbani, le semplici nozioni di urbanistica che da anni si insegnavano nelle università.

Lo “sperpero” del territorio, nella completa indifferenza per la tutela dell’ambiente e della bellezza, ne è una delle conseguenze più appariscenti. Contemporaneamente, sulla stessa area, ci sono esempi del sovrapporsi di funzioni incompatibili fra loro, sinonimo di degrado della qualità della vita. Al di là del tragico crollo, il ponte Morandi può illuminare in proposito.

Affrontare ora il problema non è compito facile; ancora meno facile individuare soluzioni condivise. Ma salvare il salvabile non è impossibile. Anzi, a livello planetario, la situazione dell’Italia, pur densamente popolata, per fortuna non è fra le peggiori esistenti.

 

Gen Guala

 

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Bellezza,_sicurezza,_economia_e_degrado_ambientale

 

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La notizia fà piangere! Siamo diventati così bravi a differenziare che come minimo ci aspettiamo un cambiamento climatico imminente per i nostri sforzi! Poi a Bergamo, al Nord…… ci sentiamo, a buona ragione, dei cittadini modello anche perchè differenziare costa fatica! E noi lo facciamo su una spinta razionale perchè vogliamo salvare, se non il mondo, almeno il mare, gli oceani da quella valanga di plastica…… E invece no! ben il 67% della plastica che differenziamo non è recuperabile come materia prima seconda! Si, ben due terzi!

E’ quanto si può leggere in uno studio realizzato nel dipartimento di ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, coordinato dal Prof. Mario Grosso, che ci ha gentilmente concesso di pubblicare il loro articolo.

A pesare è la presenza massiccia di plasmix, ovvero un materiale plastico misto per il quale NON ESISTONO FILIERE STRUTTURATE DI RICICLO. E non finisce qui! Sebbene questo scarto potrebbe “almeno” essere recuperato come calore nei termovalorizzatori, ben il 19% di questo materiale viene conferito in DISCARICA (!!!???) “a causa della difficoltà di trovare altri sbocchi” (!!!???).

Insomma, invece di essere in un’isola felice, scopriamo che c’è ancora tanta strada da fare, che siamo solo all’inizio del percorso e che deve passare ancora molto tempo prima di capire che NON BASTA DIFFERENZIARE MA BISOGNA ANCHE INDUSTRIALIZZARE IL PERCORSO DEL RICICLO e qui servono ingegneri, industriali lungimiranti e politici con uno sguardo lungo.

 

Ing. Livio Izzo
Referente del Consiglio presso la
Commissione Ambiente ed Ecologia

 

P.S. Oltre all’articolo scientifico del Poli, allego anche l’articolo giornalistico che mi ha fatto scoprire questa miniera di informazioni. Ho chiesto ed ottenuto il permesso dall’Editore di allegarlo perchè magari può stimolare anche qualcun’altro ad approfondire questo affascinante e poco noto argomento.

 

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Per promuovere il mercato degli aggregati riciclati “di qualità” dovrebbero esistere strumenti di incentivazione economica e fiscale e meccanismi premiali da parte delle committenze e, soprattutto, l’aumento della tassazione per il conferimento in discarica, ancora troppo conveniente rispetto al riciclo dei materiali.

“Purtroppo invece le percentuali di utilizzo risultano in meno dell’1% a causa di una serie di ostacoli normativi e culturali che ne limitano l’impiego. Il blocco delle autorizzazioni “caso per caso”, in atto fino a novembre 2019, ha riguardato anche il riciclo dei rifiuti da C&D come aggregato per calcestruzzo strutturale poiché non previsto dal D.M. 5/2/98.”

Quali speranze?

 

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– SOST_FEDERBETON_2019
– Rapporto_di_Sostenibilità_Federbeton_2019

 

 

 

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Fra i nuovi inquinanti delle acque i PFAS hanno da tempo un ruolo preminente, conosciuti da tempo negli States sono arrivati alla ribalta nel Veneto per avere inquinato un’area abitata da 500.000 persone. Impariamo a conoscerli e a difenderci.

 

Autore ing. Edoardo SlaviK

proponente ing. Gianfranco Benzoni

 

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Negli anni scorsi, tutti abbiamo visto i cantieri delle due ex caserme di Bergamo dall’esterno ma era difficile immaginare il grande regalo in serbo per la città! Ritrovamenti di diverse epoche, direi di tutte le epoche storiche e preistoriche, maneggiate con cura e professionalità, hanno permesso una ricostruzione meticolosa non solo di questa area ma, attraverso di essa, di una gran parte della storia e della preistoria di Bergamo.
Un grande insegnamento reso fruibile, a tutti noi, per merito di una iniziativa editoriale, distribuita liberamente alla cittadinanza e qui allegata, da cui veramente tanto si può trarre ciascuno per la propria disciplina di riferimento: urbanistica, geologica, archeologica, di rilievo con moderne tecnologie, progettuale, di demolizione senza impatto sulla città, di sicurezza nei cantieri etc.

E’ con questo spirito che ho pensato di portarla in evidenza a tutti voi, Colleghi, con l’auspicio che possiate provare emozioni da questa lettura come è successo a me.

Buona lettura!

Ing. Livio Izzo

 

 

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E’ un binomio che sembrerebbe perfetto per spingere verso quella salvaguardia ambientale che è nella speranza e nella attesa di molti. Ma le cose non sono così semplici perché la scienza e la ricerca che la nutre non è fatta di semplificazioni ma di studi verificati e confrontabili. Molto si è discusso e si sta discutendo su quale correlazione ci può essere fra l’inquinamento da particolato (specialmente il PM2,5 ovvero le particelle sotto i 2,5 micron) e la diffusione di questo malefico virus che risponde al nome di Covid 19 e che visto in foto assomiglia a una mina marina colorata.
Riassumiamo i termini della questione, esistono due approcci e quindi due riposte ad oggi possibili. Il primo approccio è quello clinico sulla evoluzione della malattia una volta contratta. L’esposizione allo smog ha, come noto, effetti negativi sulla salute generale, rendendo più fragili e aumentando la prevalenza di patologie cardiovascolari, metaboliche e respiratorie, accrescendo così la quota di soggetti con un rischio più elevato di conseguenze peggiori in caso di contagio, quando l’organismo è più compromesso, i danni sono maggiori. E’ un dato di fatto che il particolato possa sostenere una risposta infiammatoria a livello polmonare, SARS-CoV2 sembra sostenere un meccanismo analogo, inducendo la rapida insorgenza di uno stato di infiammazione, con un incremento altrettanto rapido di citochine infiammatorie causa delle difficoltà respiratorie. Quindi una esposizione ad atmosfere inquinate nel medio e lungo periodo può essere un fattore aggravante di rischio come del resto lo è, come noto, il fumo di sigaretta che aumenta il rischio di infezioni acute delle basse vie respiratorie.

Quindi se questo approccio è largamente accettato e condiviso più controverso anzi ancora non dimostrato è il secondo approccio, quello che cerca un legame diretto infettivo fra particolato fine e contagio, perché, come afferma il prof. Caserini del Politecnico di Milano nel suo blog Climalteranti, “Due vaghi indizi non fanno una prova”.
Il primo indizio è stato portato dalla SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale) che propone in un position paper pubblicato sul loro sito web a metà marzo, l’esistenza di una relazione diretta tra “tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori”,sostenendo quindi che una elevata concentrazione di PM10 in atmosfera possa essere un “amplificatore” della diffusione del Coronavirus (e non – si badi bene – dei suoi effetti, ad esempio una maggiore mortalità). La prova sarebbe una “correlazione forte” che gli autori avrebbero trovato fra il numero dei superamenti del limite giornaliero delle concentrazioni di PM10 e il numero di contagiati. Il position paper della SIMA si spinge addirittura a ipotizzare che mentre nelle regioni meridionali italiane (meno inquinate) il modello prevalente di trasmissione virale avviene per contatto fra persone, nelle regioni del Nord Italia maggiormente inquinate a questa modalità si aggiungerebbe l’infezione attraverso il contatto con il “particolato infetto”. L’indizio è debole e deve trovare altre conferme che non sono arrivate, la evidenza dell’evolversi del contagio in altre parti del mondo ha evidenziato come la diffusione della malattia non sia correlata a zone ad alto inquinamento (se non per quanto detto sopra) ma fondamentalmente dai fattori umani di vicinanza, spostamenti da e per l’estero e luoghi di lavoro a stretto contatto e quindi di trasmissione via areosol emesso dalla respirazione dei soggetti ammalati o comunque positivi al virus.

Un secondo indizio è quello del Comunicato stampa del 24 aprile “Presenza di Coronavirus sul particolato atmosferico: possibile “indicatore” precoce di future recidive dell’epidemia da COVID-19”, che si basa, anche in questa circostanza, su un lavoro non pubblicato. Qui gli stessi autori del position paper annunciano di aver trovato tracce di RNA virale SARS-CoV-2 nel PM10 atmosferico prelevato in alcune zone di Bergamo e si spingono a ipotizzare l’uso di questa scoperta come importante ai fini delle misure di gestione della fase 2 dell’epidemia COVID-19. Al riguardo riporto quanto replicato dal prof. Caserini, “la presenza di tracce di virus nel particolato non è affatto una novità, visto che si studiano anche le tracce di virus di tanti millenni or sono presenti nelle carote di ghiaccio. Ma, ovviamente, non si tratta di virus attivi, in grado di essere infettivi. Sono, appunto frammenti, tracce che possono indicare la presenza di virus infettante, ma non la dimostrano, come spiegato in seguito. Quand’anche venisse confermata in altri studi la presenza di virus ancora attivi sul particolato, questo non comporterebbe la sua infettività. In prima battuta, perché dopo poche ore un virus, in assenza di un ospite da colonizzare e nelle cui cellule replicarsi, non può continuare ad esistere come entità biologica. In seconda battuta, per infettare non bastano uno o pochi virus ma deve esserci una definita carica virale sotto la quale non vi è infezione.”
La materia comunque è complessa e merita comunque attenzione, osserva Sergio Harari, direttore Unità Operativa Pneumologia, Ospedale San Giuseppe di Milano, “SarsCov2 viene trasmesso soprattutto tramite le goccioline respiratorie di una persona infetta; il contagio da superfici infette è più raro, mentre alcune indicazioni suggeriscono che il virus possa rimanere infettivo nell’aerosol di un ambiente chiuso. Invece, l’ipotesi che il particolato atmosferico possa ‘trasportare’ il virus e quindi contribuire a diffonderlo per via aerea non sembra plausibile: il particolato può veicolare particelle biologiche come batteri, spore, pollini e anche virus, ma appare improbabile che i Coronavirus possano mantenere intatte caratteristiche e proprietà infettive dopo una permanenza più o meno prolungata all’esterno perché temperatura, essiccamento e raggi UV danneggiano l’involucro del virus e quindi la sua capacità di infettare. Perciò un legame fra le fluttuazioni giornaliere del particolato e l’incidenza dei contagi non è ad oggi confermata né plausibile”.

Chiudo con le conclusioni del Prof. Caserini, “di motivi per ridurre le emissioni di particolato, o di gas climalteranti, ce ne sono già fin troppi; a prescindere dall’epidemia di COVID-19 dobbiamo ridurre l’inquinamento dell’aria e contrastare drasticamente il riscaldamento globale. Non occorrono teorie – non ancora dimostrate – che mostrino altri possibili pericoli legati al particolato, e che rischiano di contribuire solo alla confusione nella comunicazione di materie complesse, in un momento in cui sarebbe più utile che gli scienziati parlassero in modo chiaro, responsabile ed efficace. Una raccomandazione utile in questa epidemia è piuttosto quella di stare all’aria aperta, perché non fa male, e se si sta in ambienti chiusi occorre far circolare l’aria aprendo le finestre”.

Autore: Ing. Gianfranco Benzoni

Di seguito l’Articolo integrale del prof. Casarini et altri

ARTICOLO Inquinamento e Covid due vaghi indizi non fanno una prova

LINK:  https://www.scienzainrete.it/articolo/inquinamento-e-covid-due-vaghi-indizi-non-fanno-prova/stefano-caserini-cinzia-perrino

 

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