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Da alcuni anni la parola “resilienza” è diventata “di moda”.

Non so voi ma io non mi sento felice quando sento attribuire questo termine non all’acciaio, come siamo abituati come ingegneri, ma a qualcuno o a qualcosa cui non riusciamo a trasferire il concetto che abbiamo in testa. Mi disturba….. mi viene da pensare che stanno “scimmiottando” un termine che ha un significato (per me) estremamente preciso e che lo stanno usando senza saperne il significato…..

Beh, questo articolo del collega Giuseppe Margiotta mi ha fatto rimettere i piedi per terra, Se c’è un vuoto, sappiamo che qualcosa lo colmerà…… se c’è bisogno di coniare o tradurre un concetto per prima cosa si cerca di utilizzare quello che c’è e, se lo si usa frequentemente e da diverse fonti, la lingua si arricchisce di un nuovo vocabolo o di una nuova accezione di un vocabolo esistente….. che noi lo vogliamo o no!

E così questo articolo mi ha colpito e mi ha fatto riflettere…… noi ingegneri non abbiamo un diritto di proprietà assoluta sui termini che usiamo e, viceversa, la trasformazione del linguaggio corrisponde alla trasformazione della natura ed in definitiva: è vita!

Izzo Livio

 

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resilienza

 

 

 

 

 

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L’impatto sul mondo produttivo del covid 19 ha fatto dello “smart working” un modo di lavorare sempre più diffuso. Smart vuol dire intelligente. Se per intelligente si intende l’utilizzazione di tutti i mezzi che l’evoluzione della tecnologia mette a servizio delle attività dell’uomo, oserei dire che lo “smart working” è esistito da quando mondo è mondo. La pandemia, costringendo la gente nelle sue case, non ha fatto altro che accelerare un processo già in atto. Più facile nelle multinazionali, che già lo utilizzavano, anche se i loro dipendenti, per antica consuetudine, si recavano ancora in ufficio. Porto l’esempio di Microsoft, che ha chiuso la direzione di Redmond, nei pressi di Seattle, dal febbraio del 2020 e non la riaprirà fino a quando il vaccino non avrà debellato il morbo. Si tratta di migliaia e migliaia di persone che già lavoravano nel dare supporto a clienti e fornitori sparsi in tutto il mondo, abituate da anni allo “smart worhing”, se non fosse altro perché si connettevano da casa alle nove di sera, quando in Cina era l’alba. Non so come se la cavassero là, nella produzione dei componenti.  Sono gli stessi problemi che deve affrontare l’industria in Italia, in particolare la piccola e media industria, che regge sulle sue spalle quasi tutto il peso dell’intero paese.

L’ing. Mazzoleni, nelle interviste che ha fatto, ci fa un quadro di come due ditte, operanti nella bergamasca, abbiano affrontato, ricorrendo allo “smart working”, le restrizioni imposte dalla prima ondata del virus. Un processo che si è ripetuto, secondo la loro peculiarità, in altre decine e decine di siti produttivi. C’è stato anche il tempo, purtroppo, di cercare un giusto equilibrio. Speriamo di poter tirare in tempi brevi le somme di questa rivoluzione, che muterà radicalmente abitudini consolidate nella nostra vita quotidiana e nei rapporti sociali.

 

Gennaro Guala

 

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